E’ arrivato in Italia tre anni fa, da solo senza familiari, vive in una comunità per minori di Milano. Parla un buon italiano, ha una solida rete di amici, soprattutto tra i connazionali, per qualche anno ha sperimentato la sicurezza ma anche il vincolo della vita comunitaria. Come società organizzata gli abbiamo garantito: protezione, vitto, alloggio, apprendimento della lingua e scolarizzazione di base.
Affrancatosi presto e per necessità dalla sua condizione infantile (dati e ricerche dimostrano che i ragazzi emigrano da soli in età sempre più precoce, tra i 10 e i 17 anni), dopo aver affrontato le fatiche e i pericoli del viaggio, è stato riportato ad una condizione di “minorità forzata”, senza la possibilità di valorizzare e stimolare quelle capacità di cavarsela e di interpretare il mondo e le sue complessità attraverso strumenti adeguati, che pure gli sono state così necessarie durante il viaggio: orientamento, lettura dei segni, uso del mobile phone, competenze linguistiche, capacità di lavorare per pagarsi le tappe del viaggio e talvolta il prezzo stesso della propria sopravvivenza.
se capiamo che questa generazione di ragazzi ha spesso qualità e attitudini tanto spiccate quanto sottoutilizzate, potremmo interrogarci collettivamente su quali altre strade possiamo percorrere. In una direzione di capacitazione (nell’accezione di Amartya Sen e Martha Nussbaum), di rafforzamento di attitudini ed energie non ancora messe alla prova, e con una chiave sfidante (molti di questi ragazzi potrebbero avere talenti e capacità che rischiano di non venire mai riconosciute) si colloca la nostra proposta di sperimentazione.
Tre sono le caratteristiche fondamentali di questa nuova generazione di ragazzi che partono soli verso l’Europa: il precoce allontanamento da casa, sostenuti o meno dalle proprie famiglie
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